Salute mentale: la storia di Stefano, 'morto di depressione' all’Ospedale di Trieste

Ospedale Cattinara

Ricordate “Paola”, la signora che – pur chiedendo di mantenere l’anonimato – mercoledì scorso ha coraggiosamente raccontato cosa è avvenuto all’Ospedale Psichiatrico di Trieste (dove sua madre ha lavorato come infermiera, n.d.r.) prima e dopo la riforma di Franco Basaglia?

Oggi, sempre “Paola”, ha accettato di raccontarci altrettanto coraggiosamente un’altra storia: quella di suo fratello Stefano (e, in questo caso, il nome dell’uomo è quello reale, n.d.r.).

Stefano tentò il suicidio due volte, gettandosi in acqua, ma entrambe le volte si salvò. I tentativi di suicidio, però, lo condussero a diventare un paziente del Centro di Salute Mentale di Trieste e, nell’arco di un paio d’anni, la sua vita terminò.

“Paola”, quanti anni aveva suo fratello quando è morto e dove si trovava?

«Stefano è morto a 52 anni all’Ospedale di Cattinara di Trieste, per cause non meglio specificate nonostante l’autopsia, in seguito a dei fecalomi che secondo la struttura sanitaria erano stati risolti. Stando ai sanitari, il 27 dicembre avrebbero dovuto dimetterlo e, invece, proprio quel 27 dicembre (del 2019, n.d.r.) è deceduto».

Come vi è stata comunicata la notizia del suo decesso?

«Questo è uno degli aspetti drammatici della vicenda. Ci hanno telefonato dall’ospedale alle 7:30 del mattino, chiedendo a me e a mia madre di recarci presso la struttura per parlare con i medici. Essendo un orario inusuale, avevamo capito che qualcosa non andava, quindi ci siamo preparate in fretta e siamo uscite, ma il tempo che s’impiega per arrivare all’ospedale è di circa 40 minuti. Quando siamo arrivate sul posto, dato che la stanza in cui era ricoverato Stefano si trovava prima del bancone degli infermieri, mia madre è andata nella stanza per vedere come stava e io sono andata ad avvisare che eravamo arrivate. Mentre stavo fornendo le mie generalità al bancone, ho sentito l’urlo straziante di mia madre e un’infermiera mi ha abbracciato, affermando che mio fratello era deceduto quella stessa mattina. Mia madre ha urlato non solo perché il figlio era morto ma perché, quando è entrata nella stanza, lui era ancora con la gola aperta perché avevano tentato di tracheotomizzarlo e non era neanche coperto. Dopo avere urlato a mia volta agli infermieri che andassero subito a controllare mia madre perché cardiopatica, mi sono accasciata su una sedia e ho pianto tutte le lacrime che avevo. Mia madre ha retto il colpo, sul momento, ma è morta di arresto cardiaco poco meno di due anni dopo».

Cosa avete fatto dopo avere appreso la notizia?

«Poco dopo tutto questo trambusto, un medico ci ha chiesto l’autorizzazione per sottoporre ad autopsia il corpo di Stefano, perché nemmeno loro si spiegavano come potesse essere successo. Ovviamente, noi abbiamo autorizzato l’autopsia, ma le reali cause della morte di mio fratello non sono state comunque chiarite: hanno parlato di uno shock multiorgano, di cui non hanno saputo spiegare l’origine».

Perché non è stata fatta alcuna denuncia?

«Non abbiamo sporto denuncia perché ci vogliono tanti soldi per intraprendere una causa. Noi non li avevamo e, in ogni caso, avevamo la certezza che avrebbero vinto loro. In quel momento, poi, eravamo talmente sconvolte che abbiamo pensato di voltare pagina… ma è stato impossibile».

Proviamo a ripercorrere, a ritroso, la storia di suo fratello: com’è finito nella struttura ospedaliera in cui è deceduto?

«All’Ospedale di Cattinara di Trieste, Stefano è arrivato a causa di un fecaloma, patologia che può venire a chiunque… per quanto solitamente sia più comune negli anziani. Mio fratello era giovane, ma soffriva di depressione: prendeva dei farmaci che gli causavano sia stipsi che diarrea. Io avevo segnalato questa diarrea anomala, ma mi era stato detto che era a causa del farmaco che prendeva e che potevo stare tranquilla. Il nodo di tutta questa storia è che lui un anno prima aveva tentato il suicidio per due volte ed è stato ricoverato in una clinica psichiatrica, rimanendo “marchiato” per sempre. Quando è arrivato in ospedale, sapevano che era un paziente del CSM e questo deve aver compromesso le cose perché, a parte il primo giorno, ho sempre trovato mio fratello che dormiva profondamente. Provavo a svegliarlo, lui si sforzava di reagire ma gli si chiudevano gli occhi… così lo lasciavo dormire. Mi sembrava decisamente anomala questa situazione, perché a casa non ha mai dormito in orari diversi dalla notte. Ho chiesto più volte agli infermieri di dirmi che farmaci gli somministravano, ma tutti mi rispondevano che stavano solo seguendo la terapia farmacologica fornita da me. Eppure a casa non era così: guardava la tv, parlava, interagiva con gli altri. Ammesso e non concesso che nel suo corpo stesse succedendo qualcosa che poi lo ha portato alla morte, se fosse stato più sveglio avrebbe potuto accorgersene e avvisare i sanitari? E i medici non avrebbero dovuto insospettirsi del fatto che quest’uomo dormisse sempre? Non sono un medico, ma so che se avessero continuato a somministrargli i farmaci che già assumeva non avrebbe dovuto essere così letargico».

Cosa lo ha portato a soffrire di depressione?

«La depressione è una brutta bestia e non ha una sola causa scatenante. Stefano ha tentato il suicidio due volte, senza riuscire a uccidersi: una volta grazie all’intervento di un ragazzo che l’ha salvato e l’altra per circostanze fortuite. Sicuramente l’ha fatto per la perdita del lavoro e le modalità con cui tutto si è verificato. Mio fratello lavorava in una cooperativa sociale con la mansione di distributore di farmaci per le varie Asl della città. Dopo vent’anni di “onorato servizio” – durante il quale non ha fatto una giornata di assenza, salvo le regolari ferie – gli è stato comunicato che avrebbe dovuto pulire i bagni. Lui, sentendosi umiliato e non trovando giusta questa nuova mansione, si è fatto prendere dalla rabbia e ha minacciato di licenziarsi. Passata la rabbia e la frustrazione, si è scusato e ha accettato la nuova mansione, ma sono stati i responsabili della cooperativa a non volere revocare le sue dimissioni. Avrebbe avuto mille modi per reagire: avrebbe potuto accettare fin dall’inizio per poi mettersi in malattia a oltranza, ma lui non era così. Mio fratello non ha mai cercato sotterfugi e ha pagato a caro prezzo la sua onestà intellettuale. L’essersi licenziato non gli ha dato neanche diritto alla disoccupazione. Queste delusioni, precedute da un lutto in famiglia, sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso».

Cosa si augura di ottenere oggi, raccontando pubblicamente e per la prima volta la sua storia?

«Nessuno potrà restituirmi Stefano e neanche mia madre, la cui prematura scomparsa è legata alla perdita del figlio. Spero solo che questa mia testimonianza serva a mettere in guardia tutti coloro che stanno accanto a chi soffre di depressione, affinché veglino sul loro caro senza fidarsi di nessuno. Ma anche affinché non abbiano timore di alzare la voce per difendere i diritti dei malati. Io ho fatto di tutto per aiutare mio fratello finché era in casa con me. Quando è entrato in ospedale mi sono fidata dei medici e, per quanto avessi lanciato l’allarme, forse avrei potuto fare di più. Eppure, voglio credere di non avere colpe. Voglio pensare che la sua morte non sia stata causata dal suo marchio di paziente CSM e che, avendo lui già tentato il suicidio, il suo desiderio di andarsene sia stato avverato. Probabilmente, avrei preferito che morisse quando ha tentato il suicidio. Sembra brutto da dire… eppure sì, l’avrei accettato perché era la sua volontà. E anche perché, quando è morto, era da un po’ che aveva invece deciso di ricominciare a vivere…»

 

Barbara Giangravè
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