Aosta. Io, mamma di un ragazzo suicida, vi racconto il mio dramma

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suicidioAOSTA. Maria mi accoglie in casa sua e mi invita in una stanza ricca di fotografie e di ricordi, alcuni dolorsi ed altri felici. Sedendomi di fronte a lei riesco a intravedere il dolore nel suo sguardo. Non c'è però rassegnazione, ma anzi la voglia di trasformare la sua tragica esperienza - la morte del figlio ventiseienne per suicidio - in un qualcosa che possa essere d'aiuto ad altri.

Maria è un nome di fantasia, come lo è quello di suo figlio, Massimo, scivolato nell'abisso della tossicodipendenza fino a rimanerne vittima. Nella loro storia le scelte - giuste o sbagliate, poco importa - si intrecciano con un sistema che in certi casi non riesce ad aiutare le persone in difficoltà e che delega troppe volte a persone inesperte la vita di soggetti a rischio.

La storia di Maria e di Massimo inoltre apre uno spaccato su un aspetto della società valdostana spesso sconosciuto ed in cui la droga è più presente di quanto non si scriva e non si racconti.

Questo racconto-intervista vuole essere un grido capace di scuotere coloro che possono fare la differenza. Un grido che arrivi ai genitori di tutti quei figli che ogni giorno vedono fiumi di veleno scorrere vicino a loro, qui, in Valle d'Aosta. Ma soprattutto un un grido che raggiunga tutti i giovani valdostani che, talvolta fin dalla giovanissima età, si avvicinano al consumo di droga.

La droga non fa prigionieri. La droga, qualunque essa sia, uccide.

 

Il racconto di Maria inizia quando Massimo si avvicina all'adolescenza in una situazione familiare difficile che lo porta a cambiare comportamento. «Si trasformò da un bravo bambino che andava a scuola e studiava in un ribelle - ricorda Maria -. Smise di studiare, di ascoltarmi, di ubbidirmi. Aveva circa 11 anni, era il periodo in cui mi stavo separando dal padre. Approfittava della situazione di conflittualità e chiedeva al padre quello che io gli negavo. Questa situazione andò avanti per alcuni anni».

Nel 2006, quando aveva 13 anni, un episodio importante potrebbe aver dato una svolta decisiva alla vita di Massimo. «Gli trovai una sigaretta in tasca e litigammo - spiega Maria -. Lui rivoleva le sigarette, io mi rifiutai e allora chiamò il 118 dicendo che lo trattavo male. Non mi vollero nemmeno ascoltare; l'ambulanza lo portò via. Lui credeva che così facendo sarebbe andato dal padre, invece fu portato all'ospedale Beauregard». Da lì venne poi trasferito in Psichiatria. Fu la sua prima esperienza in quel reparto, ma non l'ultima.

«Aveva 13 anni», ricorda la madre. «Per due giorni non me lo fecero vedere. Lo ritrovai imbottito di psicofarmaci e trasformato fisicamente. Da ragazzino carino era diventato gonfio, irriconoscibile».

Ai dottori Massimo dice che la madre lo maltratta. Dice anche che fa uso di droghe, ma dai risultati degli esami a cui viene sottoposto emerge chiaramente che lui è pulito. «I dottori mi spiegarono che forse voleva solo attirare l'attenzione. Mi dissero che per un po' potevano trattarlo come se davvero si drogasse. Io ero contraria perché temevo che avrebbe finito per farlo sul serio. E dopo è stato così».

Dopo il ricovero in Psichiatria per Massimo iniziò un percorso di vita sotto la tutela dei servizi pubblici. Fu preso in carico dai servizi sociali, mentre i genitori seguivano sedute dallo psicoterapeuta. Il ragazzo tornò a casa con Maria mantenendo un rapporto conflittuale che lo riportò ad essere ricoverato altre volte. «Il padre mi chiedeva di tenerlo anche quando doveva stare con lui. Massimo scappava sempre di casa, io lo inseguivo per riportarlo indietro, poi lui rientrava in Psichiatria», riassume Maria.

I mesi passarono, Massimo venne bocciato in terza media. Fu mandato in un istituto scolastico fuovi dalla Valle d'Aosta dove conobbe ragazzi più grandi di lui e si avvicinò ad un ambiente in cui la droga è di uso quotidiano.

Tornato ad Aosta dopo aver conosciuto quel mondo, iniziò a frequentare una scuola superiore «in cui gira tanta, tanta droga», dice la madre. Condizionato dai nuovi amici, Massimo passò dalle bravate da ragazzino a comportamenti ben più pericolosi: arrivò ubriaco a scuola, gli trovano un coltello nell'armadietto, poi delle birre. 

Maria si rivolse al Serd per avere aiuto. «Mi dissero che doveva essere lui a voler cambiare altrimenti non avrebbero potuto fare niente. Ma lui aveva solo 14 anni, non era un adulto».

Nella difficile vita di Massimo, ancora minorenne, entra l'assistente sociale. «Decise di mandare mio figlio in comunità», spiega Maria.

In questa struttura situata fuori Valle il ragazzo non rimase tanto tempo. «Era una casa famiglia con ragazzini carichi di psicofarmaci, sporchi, che fumavano una sigaretta dietro l'altra - racconta la madre -. Un ragazzino trovò una finestra aperta al quinto piano e saltò giù. Io e il padre decidemmo di farlo uscire da lì sotto la nostra responsabilità e contro il parere dell'assistente sociale».

Qualche mese dopo, Massimo dovette affrontare un gravissimo lutto: la morte improvvisa del padre appena 44enne.

In questo momento delicatissimo della vita del ragazzo, l'assistente sociale decise di farlo tornare in comunità, una diversa dalla precedente, e di tenerlo lì fino al compimento del diciottesimo compleanno. Rimasta il suo unico genitore, Maria, contraria alla decisione, non poté far nulla perché su richiesta dell'assistente sociale perse la patria potestà.

«Il padre morì quando Massimo doveva compiere 16 anni. Lo vollero comunque far entrare subito in comunità. Io volevo tenerlo a casa, vicino a me, invece me lo strapparono via. Trascorse i primi tempi del lutto circondato da estranei e imbottito di psicofarmaci», accusa Maria.

Il disagio del giovane nella nuova comunità si manifesta velocemente. «Si rasava le sopracciglia, si metteva piercing ovunque da solo, si infliggeva tagli sulle braccia e sulle gambe. Parliamo di tagli profondi, i cui segni sono rimasti a distanza di anni. Tentò di impiccarsi ed a trovarlo fu un ragazzino. Cercò anche di uccidersi tagliandosi con una lampadina rotta e scappò rubando un motorino perché voleva tornare a casa. Così da minorenne fu anche denunciato per furto. Provò a scappare una seconda volta e nemmeno mi avvisarono, lo venni a sapere solo perché telefonai alla struttura per parlargli e mi risposero che non sapevano dove era. Per ritrovarlo dovetti io, da Aosta, chiamare i carabinieri».

Di fronte alle fughe, ai tentativi di suicidio ed all'evidente disagio, l'assistente sociale non è intervenuta? «Mi disse che era una cosa normale - racconta Maria -, che quello non era un carcere e che non potevano tenerlo legato. Mi disse che se scappava da lì, avrebbe potuto farlo anche se fosse tornato a casa o in qualunque altro posto».

Massimo rimase quindi in quella comunità e continuò gli studi in attesa della maggiore età.

Qualche mese prima del diciottesimo compleanno, l'assistente sociale ricontatta Maria. «Mi invitò a chiedere per mio figlio l'interdizione e disse che sarebbe stata una misura temporanea per avere il controllo sull'uso che Massimo avrebbe fatto dell'eredità del padre. L'avvocato però me lo sconsigliò perché l'interdizione non sarebbe stata temporanea, anzi avrebbe segnato l'intera vita di mio figlio. Inoltre sarebbe stato nominato come tutore del suo patrimonio una persona della comunità in cui si trovava. Mi rifiutai».

Arriva il giorno del diciottesimo compleanno. «Mio figlio mi disse: mamma, ti prego, vieni subito a prendermi. Alla mezzanotte e un minuto ero fuori dalla comunità ad aspettarlo. Lo presi e lo riportai a casa. Lui era felicissimo, partimmo per le vacanze in Francia. Fu bellissimo».

Il momento felice però durò poco. Finita l'estate, siamo nel 2011, Massimo ricominciò gli studi nello stesso istituto frequentato prima del trasferimento in comunità. «Riprese anche certe frequentazioni - racconta Maria -. Tra settembre e dicembre accadde il peggio. Quell'autunno mia madre si ammalò e morì e lui in quei giorni portò a casa di tutto, si fece di tutto».

A fine dicembre, il dramma. «Il giorno prima di Capodanno lo trovai in camera che non si muoveva e non rispondeva più. Era in overdose. Passò due giorni e due notti in ospedale tra la vita e la morte, i medici non sapevano se ce l'avrebbe fatta. Mi avvisarono che, se si fosse ripreso, non si sarebbe più dovuto avvicinare ad alcuna sostanza».

Massimo ce la fa, sopravvive e la dura lezione ha un importante impatto su di lui: sta lontano da droghe e alcolici. «Si ricordava quello che era successo ed era spaventatissimo. Non voleva nemmeno più dormire da solo, dovevo persino tenergli la mano altrimenti si svegliava».

Una svolta positiva arriva quando Massimo conosce una nuova ragazza. «In quel periodo non fece più uso di sostanze ed i test (glieli facevo anche di nascosto) erano sempre negativi». Per quattro anni il peggio sembra ormai alle spalle, ma questo periodo si rivela soltanto una parentesi felice nella difficile vita del ragazzo. Finita la relazione con questa ragazza, Massimo si trasferisce in Francia con un'altra giovane. Trova anche un lavoro, ma non era a suo agio in quella realtà e nel 2015, dopo l'attentato di Parigi, decide di rientrare in Valle d'Aosta.

Ancora una volta, il ragazzo subisce l'influenza delle amicizie sbagliate e ricomincia in particolare a bere. «Non voglio dare colpe agli altri, ma è vero che lui cambiava con certe frequentazioni», ammette la madre.

Nell'estate 2017 Maria si sposta per un breve periodo in un'altra regione per assistere il padre gravemente malato. Massimo decide di non seguirla e di restare in Valle lavorando in un'attività del capoluogo. Mentre la madre non c'è ospita in casa personaggi ritenuti poco raccomandabili e, ancora una volta, le cattive compagnie lo indirizzano sulla cattiva strada. «Lo sentivo dalla voce al telefono che aveva ripreso a drogarsi».

Al ritorno a casa della madre, Massimo era ormai fuori controllo. «Andava al lavoro, prendeva i soldi e li spendeva in dosi. Arrivato a casa e si metteva a dormire. Usciva di notte, io andavo a riprenderlo, lo portavo a casa e rimanevo sveglia tutta la notte per controllarlo. Non era più vita».

Disperata, la madre prova a ricontattare il Serd che indirizza il figlio verso una «miracolosa» e costosa clinica in Serbia («ottomila euro per due settimane di trattamento», racconta Maria) da cui sarebbe dovuto uscire pulito, senza dipendenze. Ci prova due volte nell'arco di tre mesi: la prima torna a casa in anticipo di due giorni «già fatto», la seconda invece riesce a resistere qualche giorno prima di ricarderci. «Tornò il 30 dicembre e il 5 gennaio si drogò di nuovo».

I due fallimenti lo segnano. «Era depresso, aveva lo sguardo fisso nel vuoto, diceva che non ce l'avrebbe mai fatta».

Poi, una luce. Massimo viene a conoscenza di una clinica in Trentino: vuole provarci di nuovo, vuole ripulirsi, spera con tutto se stesso di avere un'altra opportunità per liberarsi dai suoi fantasmi. «Lui ci credeva tanto in quella occasione e non vedeva l'ora di cominciare». Dal Serd però arriva parere negativo per questioni economiche e il ragazzo ripiomba in una spirale oscura da cui non uscirà mai più.

Non sapendo più cosa fare, Maria prova a mandarlo a casa dalla nonna paterna. Il giovane rimane lì per alcune settimane e la madre si accorge che, nonostante la sorveglianza dell'ex suocera, l'abuso di sostanze continua.

Siamo al 12 marzo 2018. Maria e l'ex suocera affrontano Massimo in casa di quest'ultima. Anche l'anziana donna lo vuole mandare via da casa. Sperano che un trattamento duro riesca a scuoterlo, a fargli decidere di smettere una volta per tutte con droga e alcolici. Litigano. Massimo se ne va da casa della nonna a piedi mentre Maria prende l'auto e rientra a casa senza il figlio.

Sarà l'ultima volta che le due donne vedranno Massimo in vita.

Maria ci racconta quelle ultime, tragiche, ore. «L'ho incontrato lungo la strada mentre scendeva a piedi. Mi faceva tenerezza, capivo cosa provava. Arrivata a casa ho telefonato alla mia ex cognata per sapere se Massimo aveva fatto ritorno. Lei mi ha risposto di sì, ma ha aggiunto che era uscito di nuovo dicendo che sarebbe andato ad impiccarsi». Lì per lì la nonna probabilmente non aveva dato grande importanza all'affermazione del ragazzo, Maria invece si fece subito scattare l'allarme..

Era sera, le 21,30 circa. «Ho chiamato i carabinieri, spiegato la situazione e chiesto di cercarlo - dice Maria -. Sono arrivati anche con i cani e hanno allestito la base per le ricerche. Individuarono il suo cellulare quando lui lo accese per un attimo, ma non riuscirono a trovarlo. A mezzanotte si fermarono con le ricerche: le avrebbero riprese il giorno dopo. Io e la nonna continuammo a cercarlo».

Trascorre tutta la notte e arriva il giorno successivo. «Alle 7 del mattino arrivai a casa e dopo un'ora chiamarono i carabinieri. Lo avevano trovato» racconta Maria.

Massimo viene ritrovato privo di vita impiccato ad un albero, in un bosco di un comune alle porte di Aosta. Aveva 26 anni.

Il suo telefono aveva la batteria scarica e probabilmente per quel motivo era rimasto acceso per poco tempo. «Lo aveva acceso forse per farsi luce perché era buio. O forse per chiamare qualcuno», dice la madre.

 

La storia di Massimo è, secondo Maria, la storia di tantissime altre persone che vivono in Valle d'Aosta, in Italia, nel mondo. E la storia di Maria potrebbe essere quella di tantissimi altri genitori.

E' la storia di una mamma che ha tentato per anni di aiutare il figlio coinvolgendo anche le forze dell'ordine. Durante questa tragedia, ci spiega Maria, questo coinvolgimento non hanno quasi mai portato a risultati efficaci, tranne alcuni interventi avvenuti dopo la morte di mio figlio.

Maria adesso chiede alle istituzioni «più ascolto. Deve cambiare qualcosa nel sistema».

Lo stesso sistema che sceglie quali persone decidono della vita degli altri. Persone che, pur animate da buona volontà, possono peccare di inesperienza. Maria fa l'esempio dell'assistente sociale, «una ragazza giovane, appena laureata. Lavorava a tempo determinato con contratto di tre mesi. In quei tre mesi decideva della vita di Massimo e poi, finito quel tempo, lo metteva in sospeso. Certe cose secondo me vanno affidate a persone che hanno esperienza».

Chiede che cambi anche il Serd. «E' aperto dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 13. Un tossicodipendente, un alcolista, un giocatore d'azzardo lo è 24 ore su 24, non in orari d'ufficio».

Come mamma di un ragazzo estremamente sfortunato, Maria si è confrontata per tanto tempo con uno spaccato della società valdostana che rimane sempre nascosto come quello delle tossicodipendenze. «Coinvolge tante persone, anche quelle che meno ti aspetti. Mamme, papà, persone di un certo livello».

E i giovani? «A 11 anni, in prima media, iniziano già a bere e fumare».

A scuola si fa prevenzione? «Sì, ma non abbastanza. A mio figlio e ad altri suoi compagni la curiosità di provare a fumare è venuta dopo aver sentito descrivere gli effetti delle sostanze durante le iniziative di prevenzione».

Di Massimo ce ne sono tanti. Se li avesse tutti davanti, cosa vorrebbe dire ad ognuno di loro? «Sembra una stupidata, ma direi di non iniziare mai con la droga. Non è vero che lo si fa una volta e basta. E poi di credere di più nei genitori. Non negli amici, non nelle fidanzate. I genitori sono gli unici che ti vogliono bene, che ti ascoltano ed a cui puoi affidarti».

 


Marco Camilli