A quattro giorni dalla festa della mamma, è stata la mia mamma a fare un regalo a me… anziché il contrario. Lei vive distante da me. Anzi, sono io che vivo distante da lei. Eppure, sembra avere compreso il senso di ciò che ho scritto e di ciò che scrivo.
Così, ieri mi ha raccontato una storia che l’ha particolarmente colpita: quella dell’uomo vissuto in manicomio con la diagnosi di “carenza d’affetto”.
Tutto comincia nel 1967, in un paese della Calabria: Girifalco. Poco più di 5000 anime, in provincia di Catanzaro. Passato alla storia come “il paese dei pazzi” perché nel suo territorio si trovava uno dei manicomi più grandi d’Italia.
Si tratta di una struttura, tuttora esistente e adibita – tra le altre cose – a Centro di Salute Mentale – nata nel 1635 come convento di frati e convertita in manicomio alla fine del 1800.
Protagonista di quest’assurda vicenda – che, per gli amanti del genere, potremmo definire kafkiana – è Pino Astuto il quale, all’epoca in cui si svolsero i fatti, aveva solo otto anni.
Il bambino finì all’interno del manicomio dopo essere passato da un ospedale, nel quale venne ricoverato per essere sottoposto a una lavanda gastrica.
Il motivo per cui venne effettuata questa procedura sanitaria su di lui era legato a un’indigestione che Pino si procurò dopo avere trascorso una notte all’interno di un mercato e avere mangiato quanto aveva trovato tra i suoi banchi.
Da allora, per Pino Astuto, cominciò una sorta di inferno in terra. Dal momento in cui venne condotto e rinchiuso nel manicomio di Girifalco, subì ogni tipo di angheria e di sopruso da parte del personale che lavorava al suo interno.
Come molte delle persone che sono state internate nei manicomi di tutta Italia, Pino non era pazzo ma, lì dentro, ha rischiato davvero di perdere il lume della ragione. Non a caso, tentò di fuggire, ma venne acciuffato e riempito di botte.
Inevitabilmente, la disperazione lo condusse a tentare anche il suicidio. Ma fallì nel suo intento perché venne salvato appena in tempo dagli infermieri. Peccato che, dopo avere ottenuto la salvezza, Pino venne rinchiuso per anni, da solo, in una camera… da lui stesso definita cella.
Uscito da quel “carcere di massima sicurezza” – e viene da interrogarsi su chi fosse destinatario di questa sicurezza… forse i cosiddetti “sani” che vivevano all’esterno – Pino si è lentamente rifatto una vita.
Si è sposato e ha condotto una battaglia legale che lo ha portato a ottenere dallo Stato un risarcimento di 50mila euro… come se una vita rubata potesse essere risarcita.
Cosa sono, infatti, 50mila euro a fronte di un essere umano che viene rinchiuso, senza alcuna valida motivazione, quando è appena un bambino e riacquista la libertà quando è ormai un uomo adulto?
Pino, nonostante tutto, trascorre le sue giornate come un vero e proprio artigiano: restaurando e realizzando degli oggetti che somigliano più a delle opere d’arte. Tutte custodite gelosamente nella casa in affitto in cui vive con la moglie, contando su una piccola pensione.
Nel venire a conoscenza della sua storia, mi è subito tornato alla mente il testo della canzone “Ti regalerò una rosa” di Simone Cristicchi. Più precisamente quando il cantautore romano scrive “La mia patologia è che son rimasto solo. Ora prendete un telescopio, misurate le distanze. E guardate tra me e voi, chi è più pericoloso?”.
Io conosco il peso della solitudine che aggrava la condizione di chi soffre, sebbene la mia storia non sia minimamente paragonabile a quella di Pino Astuto.
Tuttavia, mi domando sempre quanto il mio stesso atteggiamento sbagliato nei confronti della malattia mentale ferisca e aggravi la situazione di altre persone con cui sono entrata in relazione negli anni.
Quando la malattia si riacutizza in me, infine, mi chiedo sempre persino quale sia il modo più giusto di chiedere aiuto a chi mi sta intorno. E, ancora oggi, non mi sono data nessuna risposta…
Barbara Giangravè
(Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)