Mi capita spesso di interrogarmi su che genere di persona io sia. Mi capita spesso di domandarmi se io sia effettivamente aperta e, soprattutto, priva di pregiudizi. Mi capita spesso di chiedermi come possa diventare una persona migliore di quella che sono realmente. A volte, per mia fortuna, è il mio antico lavoro di giornalista ad aiutarmi. Come in questo caso.
Grazie alla segnalazione di una cugina che considero la sorella che non ho mai avuto, di un professore che mi dispero di non avere avuto io come professore e di un prete che mi ha aiutata a eliminare un pregiudizio, ho avuto la possibilità d'intervistare il dottore Ezio Aceti: psicologo e conferenziere che, da Lecco, gira tutta l’Italia per parlare de "La bellezza dell’educare".
Dottore Aceti, sempre più spesso leggiamo sui giornali episodi di cronaca nera in cui sono coinvolti giovani, se non addirittura giovanissimi. Alla luce della sua esperienza professionale, ci può dire perché – secondo lei – si sta verificando tutta questa violenza, apparentemente gratuita, compiuta proprio da individui che sono poco più che bambini?
Innanzitutto, bisogna sottolineare che chi commette atti violenti rientra in due categorie di solito: si tratta di maschi e si tratta di immaturi. Perché è l’immaturità di una persona che conduce alla violenza. Eppure, questa è una società che, in un certo senso, va contro i maschi. Pensi alle scuole. Le insegnanti della scuola – da quella d’infanzia a quella primaria e a quella secondaria di primo grado – sono soprattutto donne. In parte, è così anche alle scuole secondarie di secondo grado, quelle che una volta chiamavamo “superiori”. Io penso che ci dovrebbero essere più insegnanti uomini e che la cura nei confronti dei bambini dovrebbe essere maggiore: nelle famiglie, sia da parte delle madri che dei padri, e nelle scuole.
Perché ha scelto di occuparsi di educazione e psicologia infantile e adolescenziale?
Perché sono fermamente convinto che le basi dell’educazione di un individuo si pongano nella fascia d’età che va dagli 0 ai 6 anni. Faccio spesso riferimento alle figure dei pedagogisti più famosi che abbiamo avuto in Italia, soprattutto a Maria Montessori. Seguo l’evoluzione dei bambini che diventano adolescenti poiché ritengo che famiglie, insegnanti e chiesa non sappiano assolutamente nulla di loro. Sono fermamente convinto, inoltre, che nel nostro Paese si debba rendere obbligatoria l’alfabetizzazione genitoriale.
Nel corso della sua lunga carriera, quali cambiamenti ha notato tra i bambini e gli adolescenti con cui ha avuto a che fare agli esordi della professione e i bambini e gli adolescenti di oggi?
I cambiamenti tra i bambini e gli adolescenti di una volta e quelli di oggi dipendono fondamentalmente da una rivoluzione tecnologica che, nell’arco di quarant’anni, è andata avanti a una velocità sempre maggiore e noi adulti non abbiamo affatto compreso questa rapidità. È anche vero che i rapporti tra genitori e figli, una volta, erano basati sulla paura dei ragazzi nei confronti dei propri padri e delle proprie madri. Ed era assolutamente sbagliato. Oggi, però, non è stato compreso che devono essere i genitori ad andare verso i propri figli e non il contrario. La vera educazione che si può impartire ai figli dipende dalla stima che i figli nutrono nei confronti dei propri genitori.
Come ritiene debba essere il ruolo dei genitori nell’educazione dei figli? E come ritiene debba essere il ruolo degli insegnanti nell’educazione degli studenti?
In entrambi i casi, sia i genitori che gli insegnanti devono possedere tanta umiltà. Anche dall’umiltà deriva la stima di cui parlavo poc’anzi. Inoltre, c’è un elemento assolutamente deleterio dei giorni nostri che io eliminerei del tutto: il registro elettronico. Si tratta di uno strumento che crea una sorta di alleanza tra genitori e insegnanti e che non va a favore degli allievi, ma contro. Figli e studenti devono essere motivati, da genitori e insegnanti, ad andare a scuola e a frequentarla nel migliore dei modi possibili: con profitto.
Pensa sia verosimile che le famiglie dei giorni nostri abbiano delegato alla scuola il compito di fare maturare i propri ragazzi? E, se sì, perché?
Le rispondo dicendole che io ho tre grandi sogni nel cassetto. Il primo è relativo all’alfabetizzazione genitoriale cui ho già accennato: ogni Comune d’Italia dovrebbe fornirla obbligatoriamente a tutti coloro i quali si accingono a diventare genitori. Il secondo ha a che fare con la formazione degli insegnanti, che dovrebbero sostenere – tra gli altri – tre esami all’Università: uno sui bambini, uno sugli adolescenti e uno sulle relazioni. Il terzo, infine, prevede la stessa cosa per i preti: questi tre esami dovrebbero essere introdotti anche nei Seminari, quando lo studio dei futuri sacerdoti si concentra sulla Teologia.
Cosa consiglia agli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado che, quotidianamente, si ritrovano a svolgere il proprio lavoro quasi come se fossero in trincea?
Di educare se stessi all’ascolto dei propri allievi: è fondamentale ascoltare e comprendere bambini e adolescenti. Cosa sentono, cosa provano, quali sono le loro emozioni. Senza mai dimenticare che i giovanissimi di oggi sono enormemente più stimolati rispetto a quelli di ieri. Motivo per cui, spesso, il loro livello di attenzione è molto basso ed è sempre più difficile tenerli seduti per più di mezz’ora. Non bisogna vedere in questa molteplicità di stimoli qualcosa di negativo, però, ma capire che questo è il mondo in cui viviamo e nel quale dobbiamo cercare di valorizzare gli aspetti positivi.
Anche noi, in passato, abbiamo raccontato il mondo della scuola (qui l'articolo). Lei ha aperto diversi sportelli di ascolto negli istituti scolastici: ci può raccontare com’è andata?
Gli sportelli di ascolto ai quali si riferisce lei sono quelli rivolti agli studenti. Gli sportelli di ascolto dei quali mi sono occupato io sono stati rivolti a genitori e insegnanti. Ma, sia in un caso che nell’altro, si tratta di mezzi fondamentali per indirizzare la formazione. Di tutti. Solo partendo dalle necessità dell’utenza si può riuscire ad aiutarla.
Un bambino o un adolescente con un vissuto familiare difficile possono diventare degli adulti consapevoli e, soprattutto, "sani"?
Assolutamente sì. Io sono fermamente convinto che la sofferenza si possa trasformare in felicità. Del resto, se così non fosse, non esisterebbero entrambe le cose. Perché una è il rovescio della medaglia dell’altra. E viceversa.
Adesso che lei, oltre a essere padre è anche nonno, come vede il futuro dei suoi nipoti?
Non lo so e penso che saranno loro a doversela vedere con il futuro. Io mi soffermo sul presente e il mio presente, quando sono con loro, è fatto di vizi. Io sono un nonno che vizia i suoi nipoti perché credo che i nonni abbiano questo ruolo nella vita dei figli dei loro figli. Il vizio è fondamentale: la prego, lo scriva.
Lo spunto per questa intervista è nato dall’incontro – “La bellezza dell’educare” – che lei ha condotto nella chiesa di San Sebastiano di Palazzolo Acreide, il paese in provincia di Siracusa nel quale io mi sono trasferita da qualche anno. Pur non essendo credente, più di una volta mi sono ritrovata nelle idee di alcuni preti. Secondo lei, è possibile vivere una spiritualità che vada oltre la fede in una religione?
Certamente. Quello che conta è il rapporto tra noi e il nostro io più intimo, più profondo. Dobbiamo essere connessi con quell’amore di cui, in fin dei conti, parlano tutte le religioni. La ricerca del bello, del buono… della bellezza in generale è insita anche nel lavoro che svolge lei: scrivere.
Quando io, dopo avere fatto la Prima Comunione, ho comunicato ai miei genitori che non avrei continuato a frequentare la chiesa perché, già da bambina, non credevo in alcun dio, ho avuto la fortuna di non essere forzata – in alcun modo – a proseguire un cammino che non mi apparteneva. Cosa pensa di quei genitori che, invece, obbligano i propri figli a frequentare la parrocchia e la frequentano loro stessi più per abitudine e tradizione che per reale convinzione?
Non penso niente di diverso da ciò che ha dichiarato Papa Francesco su chi si professa credente, pur non essendolo realmente. La fede di un cattolico non si misura in base ad atteggiamenti di facciata. La vera fede consiste nell’avere un rapporto personale con Dio. Probabilmente, lei non ha avuto questa esperienza e i suoi genitori non l’hanno costretta a proseguire perché lo hanno capito. Vede? Siamo tornati a quella comprensione dei propri figli di cui abbiamo parlato tanto.
Chiudo con una “chicca”, per me. Il paese in cui mi sono trasferita e che lei ha da poco visitato è un borgo antico e ricco di storia. Purtroppo, però, almeno dal mio punto di vista, viene ridotto a mera “location” di feste patronali molto pagane e poco cristiane. Come vede lei il folclore di cui viene ammantato il culto di un santo?
Quello che tocca con questa domanda è uno dei punti nevralgici della chiesa, un vero e proprio travaglio che attraversa molte parrocchie. Non dobbiamo demonizzare il folclore. Dobbiamo rispettare, invece, anche le tradizioni delle persone più semplici. Detto questo, però, dobbiamo accompagnare folclore e tradizioni verso una fede autentica e vera. La fede di cui parla Papa Francesco, la fede di cui le ho parlato io, la fede basata sulla relazione personale con Dio. E, anche in questo caso, riprendiamo un concetto già espresso nel corso di questa intervista: l’importanza delle relazioni. Le auguro, di cuore, di avere delle relazioni autentiche, profonde e vere con le persone che ama.
Barbara Giangravè
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Grazie a Cettina Fargione, Vincenzo Perez e Salvo Randazzo